Un sushi al tavolo con interisti che rosicano. Ibra, nostro signore e nostro dio. Conte e la partita che non c'è

Vi starete chiedendo: dov’è Longoni col suo editoriale che farà rosicare gli interisti? Tranquilli, Andrea si esprimerà domani. Essendo impegnato a Telelombardia, mi ha chiesto un cambio di slot. Io scrivo dopo aver finito una cena con amici interisti, che hanno menato il torrone tutta sera sulla mancata espulsione di Kessie e sulla non conoscenza della nuova regola del fuorigioco, che ha portato all’annullamento del rigore concesso da Mariani per il contatto Donnarumma-Lukaku. Ecco, dopo quattro anni ho notato molto una cosa: davano troppo per scontata la vittoria nel derby. Dal 31 gennaio 2016 a ieri, il Milan non aveva più vinto la stracittadina, dando a quelli là (mi perdoneranno, ma nella settimana del derby ci sta) una sorta di diritto acquisito. Invece no, invece qualcosa è cambiato. L’Inter era l’unica delle grandi a mancare all’appello della collezione di scalpi di Stefano Pioli e della sua banda terribile. Inutile che Antonio Conte vada in tv a dire che avrebbero meritato di vincere. Non è un’analisi lucida e corretta di quanto visto in campo. Perché se l’Inter ha avuto le chance di pareggiare la gara, il Milan ha avuto due volte il colpo del ko tecnico con Leao (destro a fil di palo) e con Krunic, al quale saranno fischiate parecchio le orecchie per le imprecazioni dei tifosi milanisti sparsi in tutto il mondo.
Ma il derby di ieri ha avuto un solo, grande, padrone: sua immensità Zlatan Ibrahimovic. Il totem, l’uomo che ha riempito nuovamente di un senso più ampio dell’appartenenza le giornate rossonere. Alla prima post covid-19, Ibra ne pianta due come col Bologna, salendo a quota quattro gol in due partite di campionato giocate. Sul rigore, lo ammetto, ho temuto che quello specialista innegabilmente forte di Handanovic ci potesse arrivare, perché Zlatan incrocia sempre la conclusione e raramente apre, e infatti ci è arrivato. Ma sulla respinta si è avventato famelico l’11 più bello del mondo. E il gol del raddoppio, nato da uno strappo clamoroso di Leao su D’Ambrosio che ha chiesto la targa del portoghese all’autovelox, è stato un momento di lidibine pura. Poi è iniziata un’altra partita, quella in cui l’Inter – inevitabilmente – ha rimesso fuori la testa e il gol di Lukaku ha risvegliato i fantasmi della rimonta di febbraio. Ma qui sono saliti in cattedra i principi che Pioli va coltivando da mesi a Milanello. Il Milan, che nella prima mezz’ora ha regalato tratti di grande calcio, si è tolto lo smoking e si è messo la corazza. Ha tenuto botta, ha accettato lo scontro fisico, è stato fortunato sulle occasioni di Hakimi e Lukaku, ma alla lunga ha meritato di vincere.
È una sensazione strana, quasi di normalità all’interno di un ciclo anormale di sconfitte e pareggi che avevano assuefatto la testa del tifoso milanista. Oltre agli amici interisti, al tavolo c’erano anche quelli milanisti – con figlioletti annessi che cantavano l’inno del Milan – che non hanno perso tempo – tra un roll e un sashimi – nel ribadire come le portate andassero portate “a due a due”, chiedendo alla cameriera, per più volte, se il salmone fosse svedese.
Una notte da ricordare, che possa essere normalità. Che possa essere segno che il Milan è davvero alle porte del ritorno ad altissimi livelli. Con buona pace di chi vede altre partite e lo dichiara davanti ai microfoni dei colleghi delle tv. Milano, quando è rossonera, ha dei colori bellissimi.

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