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Tarozzi (ex capo comunicazione Milan): "Quando fermai Terim in ciabatte prima di una conferenza. Con Baggio ce la siamo vista brutta"

ESCLUSIVA MN - Tarozzi (ex capo comunicazione Milan): "Quando fermai Terim in ciabatte prima di una conferenza. Con Baggio ce la siamo vista brutta"MilanNews.it
sabato 18 aprile 2020, 14:00ESCLUSIVE MN
di Pietro Mazzara
Tarozzi è stato al Milan dal 1991 al 2008. Dopo l'esperienza rossonera, ha intrapreso la carriera di allenatore. Vanta 4 partite con 4 vittorie con gli svedesi dello Syrianska

Diciassette anni di Milan non si possono dimenticare, soprattutto se hai gestito – a livello comunicativo – alcune delle squadre più forti della storia. Paolo Tarozzi, dal 1991 al 2008, ha militato nel Milan con diversi ruoli, ma sempre con l’obiettivo di fare il bene del club. Oggi ha cambiato vita, ma i ricordi sono ancora molto nitidi in tutte le circostanze che abbiamo affrontato, spaziando dal Milan di Capello a Terim fino a quello di Ancelotti.

Paolo Tarozzi, com’era gestire la comunicazione del Milan quando lei arrivò in rossonero?
“Ho iniziato con Fabio Capello, con la squadra degli invincibili, andando in giro per il mondo. Sono arrivato ad agosto del 1991 ed è stato un anno di apprendistato dietro Paolo Taveggia, che era anche capo ufficio stampa. Poi ho preso il suo posto quando lui è stato chiamato per l’organizzazione dei mondiali di USA ’94. Ho avuto la fortuna di lavorare a Fininvest Comunicazione con Fedele Confalonieri e sotto la guida di Giovanni Belingardi, e ho fatto un bell’apprendistato. Avendo imparato da Confalonieri come si trattava con i giornalisti, instaurai un rapporto molto cordiale e amichevole. Lasciavo molta libertà. I giocatori sapevano che c’era un’area di Milanello dove c’erano i giornalisti, che non erano rinchiusi, potevano fare dei giri. La squadra vinceva sempre e le polemiche erano poche e io iniziai a dare manforte a questo lavoro tanto è vero che le telecamere delle tv potevano entrare due volte alla settimana a fare le immagini degli allenamenti. E non crediate che c’erano pochi giornalisti. Venivano tutti i giorni ed erano sempre 25-30. Fino al 1999, i rapporti erano quelli. Si cercava un rispetto dei ruoli, ma con grande collaborazione con i giornalisti che erano molto rispettosi”.

E se oggi ci sono le conferenze pre e post gara, è un po’ “colpa” sua…
“Assolutamente sì. Galliani era vice presidente di Lega e gli suggerì un determinato tipo di contratto per i media che prevedeva, appunto, le prime conferenze pre e post gara. Aprendo così ulteriormente Milanello. Oggi invece vedo tutto molto chiuso. Sarebbe il caso di riaprire il contatto tra i giocatori e i giornalisti”.

Qual è stata la finale di Champions League più difficile da gestire a livello comunicativo?
“Atene del 1994. Arrivavamo da sfavoriti e avevamo anche perso l’amichevole di Firenze di preparazione. Nel ’93 abbiamo dovuto gestire, in primis, la gestione del rientro di Marco Van Basten, che però non era più il Van Basten che conoscevamo tutti. Quelle due finali sono state quelle più dure, anche se diametralmente opposte per risultato finale”.

Che cos’è stato, per lei, Marco Van Basten?
“Vi svelo un aneddoto che sanno in pochi. Ho avuto la fortuna di allenarmi con lui durante il suo calvario. Prima di fare l’uomo di comunicazione, ho giocato in Serie C1 e ho sempre mantenuto viva la mia passione per il calcio. Quando lui non poteva allenarsi con la squadra, lui chiese il benestare a Capello e Galliani per avermi al suo fianco. È stato un onore anche solo cambiarmi nel suo stesso spogliatoio”.

Quanto è stato difficile organizzare la sua conferenza stampa d’addio?
“E’ stato un colpo al cuore. Noi avevamo saputo da due mesi che avrebbe smesso, ma non sapevamo se lui avesse voglia di fare qualcosa di pubblico. Bisognava aspettare i suoi tempi e le sue reazioni. Poi quando ha deciso, ha fatto quel giro di campo prima del trofeo Berlusconi dove si è spenta una parte di San Siro. Come Marco ne ho visti pochi. Ed è stata durissima convocare i giornalisti per quell’annuncio. Ma purtroppo fece delle scelte sbagliate con Marti prima e con Martens poi”.

Manchester 2003 invece?
“E’ stata una Champions straordinaria. Con l’Inter ci siamo giocati la vita sulla parata di Abbiati su Kallon. Peccato non averla vinta nei 90’ o nei 120’, ma la gioia è stata enorme lo stesso. A livello mediatico, avevamo 2000 occhi su tutto. La mole di lavoro fu impressionante, perché abbiamo dovuto organizzare tutti i passaggi necessari. Dovevamo stare in equilibrio tra le esigenze della squadra, che stava preparando una finale di Champions League e quelle dei media, che volevano continuamente un contatto con i giocatori e con l’allenatore. Le norme UEFA, per fortuna, ci hanno dato una mano. Però la tensione era ai massimi livelli e, in quei casi, deve filare tutto liscio”.

C’è stato un giocatore che l’ha messa in difficoltà a livello lavorativo?
“Nei miei 12 anni da capo ufficio stampa, non è quasi mai successo che i nostri tesserati non andassero a parlare con i giornalisti nel post gara. Per noi era una stella al merito il fatto che ci mettessero la faccia sia dopo le vittorie sia dopo le sconfitte. Andavano in 2-3-4 giocatori a parlare più l’allenatore in sala stampa. Quando si perdeva, dovevo quasi pregarli e ricordo che dopo una sconfitta pesante con la Lazio, a Roma, Panucci era stato designato per andare a parlare, ma si rifiutò. E allora toccò a Tassotti, che scese dal pullman per andare a parlare con i giornalisti. Io ero andato prima in sala stampa a dire che non si sarebbe presentato nessuno, ma la cosa non piacque per niente a Galliani e così arrivò il Tasso”.

 Dei palloni d’oro che hai visto al Milan, a quale sei più legato?
“Shevchenko, senza togliere nulla agli altri. Era una persona umilissima e mi ricordo che arrivò accompagnato dal vice di Lobanosvkji. Arrivò con una mentalità e una grinta fuori dal comune. Aveva una fame che non aveva eguali. Arrivava due ore prime e andava via una dopo. All’inizio i preparatori cercavano di frenarlo, ma lui era un uragano”.

E Weah che persona era?
“George era una grandissima persona. Un grande affabulatore, con una modestia incredibile. Ricordo che aveva preso casa a Milano 3, ma dormiva per terra. Creava un ottimo gruppo all’interno della squadra. Era arrivato dal Psg che aveva 29 anni e tutti compresero la sua grandezza umana, ancor prima che tecnica. Era un leader del gruppo e non mi stupisco che sia diventato presidente della Liberia”.

Ci dica un’altra cosa che non sappiamo…
“Ho avuto l’onore di scrivere la lettera che Ruud Gullit mandò a Nelson Mandela nel giugno del 1993. Eravamo in tournée in Sud Africa, ma Ruud venne dispensato dal parteciparvi. Ma voleva che venisse portato un messaggio al Presidente, al quale aveva dedicato il pallone d’oro del 1987. Scrissi quella lettera che ottenne l’ok sia del giocatore sia di Galliani. P una cosa alla quale sono molto legato”.

E quella volta che ha rischiato la vita insieme a Baggio?
“A ricordarlo adesso, viene quasi da ridere. Ma è stato un momento di vero terrore. Dovevamo andare a trovare un bambino in un ospedale di Varese. Eravamo con il fuoristrada di Roby e quando arrivammo in prossimità del parcheggio, finimmo quasi fuori strada e sotto di noi c’era il burrone. Siamo rimasti in sospeso per circa 3 ore finché non sono arrivati tutti i soccorsi necessari per toglierci dal pericolo”.

In conclusione, qual è stato l’allenatore più difficile da gestire?
“Fatih Terim, Senza ombra di dubbio. Numero uno dei numeri uno. Eravamo molto amici all’epoca e veniva sempre con questo interprete che aveva avuto alla Fiorentina. Era un personaggio unico. Al Milan c’erano delle regole ben precise, in conferenza stampa bisognava presentarsi in un certo modo. Lui invece si presentava in maglietta, lo stuzzicadenti in bocca e le ciabatte. Un giorno lo vidi che stava scendendo dalle scale che portano in sala stampa e tutti lo aspettavano. Appena lo vidi scendere con quel look, chiusi la porta della sala stampa e dissi a Terim che non poteva presentarsi in quel modo. Lui mi disse: “Ma Paolo, io sono Imperatore e faccio quello che voglio”. E io gli dissi di no, che eravamo al Milan e che certe cose non le si potevano fare e lo rimandai su a cambiarsi”.